venerdì 27 settembre 2013

L’obesità in adolescenza: un sintomo mai preso in considerazione

Nei vari ambiti della psicologia, da quella sistemica a quella comportamentale, dalla dinamica all’analisi pura, si è sempre parlato e studiato in modo assiduo dell’anoressia e della bulimia. Lungi da me oggi parlare di queste patologie, di cui esiste un’ampia bibliografia tra cui la più esauriente è quella di Selvini-Palazzoli a cui vi rimando; questo articolo invece vuole porre l’attenzione su un altro fenomeno meno discusso e che invece meriterebbe più di una pagina di attenzione: l’obesità.
L’adolescente ha molti modi per mostrare un disagio psichico, uno di questi è  sicuramente l’anoressia che può manifestarsi in molteplici modi e che può creare nei genitori, soprattutto nella madre, ampie preoccupazioni, proprio quello a cui l’adolescente punta (inconsciamente o consciamente parlando).
Un altro modo per mostrare questo disagio è appunto l’obesità. Ma facciamo un passo indietro e interroghiamoci prima su cosa vuol dire per la nostra società il termine obeso.
Giornali e telegiornali ci bombardano mettendoci in guardia dai problemi gravi fisici che si possono incontrare quando si diventa obesi: infarti, enfisemi polmonari, diabete e via dicendo, pericoli gravi e reali che rappresentano però solo il lato inquietante del problema. La società contemporanea presenta l’obeso come un reietto, come un individuo che non si prende cura del proprio corpo, brutto, debole, vizioso, senza volontà e quindi responsabile della propria condizione. La conseguenza diretta, in questo mondo comandato dalle diete e dalle modelle o dai modelli magri e con il fisico asciutto, è che il gruppo dei pari, in adolescenza soprattutto, denigra o fa in modo di non considerare l’obeso come un suo pari. Insomma l’obeso o anche chi è in sovrappeso porta questo fardello di emarginazione e sofferenza da solo.
 A questo contribuisce anche la psicologia che, fino a qualche tempo fa, non ha quasi mai trattato l’argomento al contrario dell’anoressia o della bulimia. E’ vero che i pericoli di morte di una ragazza anoressica sono più impellenti rispetto a quelli di un obeso ma non sono pochi i casi di famiglie giunte in terapia con un/a ragazzo/a decisamente grasso/a e con sintomatologie accessorie più o meno gravi. Per fortuna ora, anche in psicologia esiste una più ampia letteratura per questo problema anche se gli studi sono ancora troppo pochi e certe volte mal condotti.

Ma perché un ragazzino/a raggiunge l’obesità?
Oggi in Italia, un bambino su tre è in sovrappeso e la ragione di ciò, nella stragrande maggioranza, è legata allo stile di vita: mangiano troppo e male e fanno poca attività fisica. Questo è dovuto anche alla tecnologia avanzata che occupa tutto il tempo libero dei bambini: parliamo di iPad, Playstation, Xbox e via dicendo.
Ad aggravare ulteriormente la situazione ci si mettono anche le nostre tradizioni, secondo le quali un bambino che mangia,anche più del necessario, è un bambino che sta bene, mentre uno che non mangia o che rifiuta il cibo non sta tanto bene.
 L’obesità non figura tra i disturbi del comportamento alimentare, non viene menzionata nelle classificazioni psichiatriche e neppure nelle patologie mediche.  E non esiste nemmeno alcuna prevenzione anche perché l’obesità non viene curata in modo appropriato ed è molto difficile che il medico entri nella problematica complessa e psicologica della persona obesa.
Insomma la soluzione proposta è sempre la stessa: dieta e ginnastica!
Ma dove si inserisce allora l’obeso dal punto di vista psicologico?
Un numero consistente di obesi manifesta un comportamento alimentare caratterizzato da crisi ricorrenti di ingordigia incontrollabile, sindrome collegabile anche alla bulimia. Il sovrappeso e il grave eccesso ponderale
sono senz’altro collegabili all’atto del mangiare, ma hanno anche implicazioni simboliche, poiché riguardano il corpo come mezzo di relazione, di espressione e di comunicazione. Il corpo parla più di tante parole e segnala stati di sofferenza profondi, talora negati dall’obeso e dai suoi familiari, ed ha sempre una forte componente relazionale. L’adolescente obeso manifesta una profonda difficoltà nel tollerare situazioni frustranti e l’angoscia che ne deriva crea la percezione di un vuoto che va colmato. La soglia di tolleranza per gli obesi è molto bassa, soprattutto in situazioni sociali e lavorative. Le famiglie degli obesi, di solito, sono famiglie invischiate in cui c’è una mancanza di confini dei ruoli tra i membri della famiglia non solo principale ma anche generazionale, esistono quindi gravi confusioni identitarie tra un membro e l’altro della famiglia. Cosi il corpo dell’obeso è usato come protezione e difesa del contatto relazionale, una sorta di distanza di sicurezza necessaria, da un lato per la paura di perdere l’altro, dall’altro per il timore di perdersi nell’altro. L’abuso della funzione alimentare in adolescenza può rappresentare anche un modo estremo per ricercare la propria identità. Un percorso identitario lungo, difficile e pieno di ostacoli. Ma può anche trattarsi di un modo dell’adolescente di autodistruggersi per gravi problemi familiari o sociali o personali. Insomma l’obesità è sicuramente un fenomeno che non va preso alla leggera e si auspicherebbe, che tutte le componenti sanitarie (medico, psicologo, dietologo, etc) e familiari dialoghino e cooperino per far si che il “peso” che un adolescente o un adulto o un bambino porta con sé, sia capito e analizzato in maniera più profonda e attenta invece di cercare forzatamente con diete o altri modi semplicistici, di risolvere il problema in maniera rapida ma inefficacie.
A presto con un nuovo articolo e come sempre se volete commentare o discutere dell’articolo il blog è a vostra completa disposizione!
Dottor Andrea Graziano

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